31.1.10

Luciano in the sky


Mi aveva colpito subito perché mi ricordava il nonno paterno. Schivo, riservato, ma sempre pronto ad accendersi per lo stupore di una domanda, di un'emozione ritrovata o di un ricordo. Diluiva un'apparente scontrosità con una gentilezza discreta, con la delicatezza di un "Torna quando vuoi, mi raccomando, mi raccomando". La mia macchina fotografica scattava felice, fermandosi addosso ai profili delle sue opere, alle sue mani nodose e ciarliere, ai suoi occhi concentrati su un disegno, di cui mi raccontava con semplicità disarmante genesi e sviluppo.
Era aprile. Il magico aprile dell'anno scorso.
Il mio sguardo curioso s'intrufolava nel suo studio per la prima intervista legata alla rubrica d'arte che da poco il giornale mi aveva affidato, decidendo dopo anni di liberare la mia penna, di darle fiducia. A volte basta cambiare una persona.
Esaltazione alle stelle, richiamavo alla mente i dettagli scarabocchiati a valanga sul taccuino e raccoglievo foglie d'ulivo volando lungo la strada tra il suo studio e il mio ufficio, di ritorno da quello spazio denso di sano disordine, stratificazione geologica d'arte, piena di racconti che mi affollavano la testa e che leggevo come insegnamenti preziosi da tradurre in parole e poi riporre nella valigetta delle mie competenze.
Mi preparavo ad accogliere così la mia fresca, sorprendente primavera. Era lì, era nell'aria, l'annusavo con un fiore tra i capelli, mentre il sole cominciava a scaldare. Era in arrivo, la primavera. Doveva solo compiersi il suo istantaneo rituale: una goccia di pioggia, su un germoglio che sboccia. 
E cambia tutto in un attimo. Come prima e dopo il bacio.

Oggi un numero di cellulare, nella mia rubrica, ha perso il suo "padrone".
Una manciata di visite, alla mostra e allo studio, per approfondire alcuni aspetti dell'intervista. Per scattare altre foto. Per ascoltare ancora un po' i racconti di questo genuino protagonista della storia dell'arte friulana del Novecento.
Perché le sue opere mi piacevano (mi piacciono) davvero.
E allora io, Luciano Del Zotto, lo saluto così. Oggi che non c'è più.

Parla senza fretta, tirando giù dal letto il sogno dell’arte e rendendolo immediato, comprensibile. Non si celebra, semplicemente si racconta, sviluppando dal corso principale esuberanti affluenti di aneddotica. Luciano Del Zotto descrive oltre cinquant’anni d’arte tra ricordi e presente, onorando ogni domanda con istanti di sincera riflessione. Citando con disinvoltura i suoi miti (i pittori del ‘400 e ‘500) e le persone con cui gli è capitato d’incrociare il passo, dal sindaco Candolini a padre Turoldo, da Mario Baldan, amico d’infanzia, allo scultore Franzolini, fino a Dora Bassi, Piccini o Pittino, solo per citare alcuni coprotagonisti della scena artistica udinese più dinamica. Tra i “genitori” del Centro friulano arti plastiche, verso cui non nasconde qualche ruggine passata, non teme di definire «follia» la scelta di Passariano per l’Accademia di Belle arti, a cui avrebbero dovuto preferire Udine. «Le cose della mia vita. Che sono quelle della vita di tutti»: sintetizza con disarmante candore il cuore della sua cinquantennale carriera, cui Palazzo Frisacco a Tolmezzo, fino al 13 aprile (mer.-lun. 10.30-12.30/17-19), dedica una ricca antologica, promossa dall'Assessorato alla Cultura del Comune e dall’Associazione Conca Tolmezzina, con il sostegno della Provincia. Sintesi che indovina il senso di una chiacchierata di un paio d’ore, insufficienti a raccogliere tutto, nel suo studio «disordinato, dicono le mie figlie», ingombro di tele, di blu e cremisi, di figure di gesso, di incisioni e Icaro ritagliati nelle pieghe di reti metalliche. Lo spazio è custodito in una corte che traspira a sua volta ricordi, in un anfratto di via Ronchi che sembra ossequiosamente sintonizzato, anch’esso, su frequenze di una cinquantina d’anni fa. Con la classica di Radio 3 come sottofondo alle pennellate o al rintocco dei martelli.
Non è qui che è iniziato tutto, però.
Ho cominciato a casa, ma dopo poco non ci stavo più! Il primo studio è stato nella chiesetta di via Gorghi, disabitata, e nel ’74 cominciai a operarvi. Ero lì, durante il terremoto. Stavo lavorando alla scultura ora installata all’Istituto magistrale Percoto: una figura femminile, omaggio alla scrittrice, con un libro sulle ginocchia. Vinsi un concorso nazionale tematico: erano istituiti da una legge che stimolava la creazione di opere d’arte da destinare a edifici pubblici. Nello stesso modo potei realizzare anche i piloni dell’illuminazione dello Stadio Friuli.
Le è nato nel 1932. Quando è scattata la passione per la pittura e come si è formato?
Non c’è un vero inizio: mio padre mi ha trasmesso la passione per il disegno, ma non mi forzò mai. L’ho coltivata spontaneamente, da subito. Come scuola feci il Malignani, ma sapevo che non sarei diventato perito edile. Mi iscrissi ad architettura a Venezia, ma sapevo che non avrei fatto neanche l’architetto, e abbandonai la facoltà. Volevo frequentare l’Accademia, ma non mi facevano entrare perché non ero iscritto: il portinaio mi sbarrava sempre la strada. Poi chiesi a Franzolini: andavo nel suo studio a imparare la tecnica. Lui si ricordava di quel signore alla porta, gli scrisse una lettera e gliela portai. «Te podevi dirmelo», mi disse lui, ripiegando il foglio e aprendomi finalmente il cancello. Così potei essere di casa in quell’ambiente, imparare, conoscere artisti e maestri.
Qualche ricordo significativo degli esordi.
Il mio amico era Mario Baldan. Attorno ai 16 anni, andavamo insieme sul Cormôr, in bici, per disegnare, o sul Natisone, e una volta siamo anche andati in montagna, in treno.
Lei è sia pittore sia scultore. “Dove” si sente meglio?
Considero pittura e scultura interdipendenti. Uno scultore, a mio parere, deve partire dal disegno per fare poi un buon lavoro con la materia. Anche se, poi, può comunque avere dei ripensamenti.
Ne ha mai avuti, lasciando “a metà” un’opera?
Le ho sempre concluse. Poi, magari, guardando il risultato, mi è capitato di pensare “non è proprio il massimo”. Ma guai se si fosse sempre soddisfatti del proprio lavoro!
Come si è evoluto il suo stile?
Parlerei più di temi: le donne carniche, i bambini del Biafra, i neri in Sudafrica con l’Apartheid. Caino e Abele. Icaro, esempio del risultato dell’eccessiva presunzione, del non riconoscere i propri limiti. Poi madri e figli. La famiglia. La vita. Ho sempre raccontato con i miei strumenti ciò che vivevo e sentivo. Un cambiamento più forte c’è stato all’inizio degli anni ’90, quando ho ridotto il mio stile all’essenza.
Com’è successo?
Così naturalmente che non ricordo l’anno, ma il momento. Stavo preparando una figura con il cemento: usavo supporti di ferro per delineare la forma. Li ho guardati e ho realizzato: “perché devo continuare, se l’opera è già finita così?”. Ho iniziato anche a dipingere così, con “anime” dentro ai profili che negli anni si sono fatte sempre più trasparenti.
Come ha selezionato le opere in mostra a Tolmezzo?
Un lavoro faticoso. C’è un “assaggio” di tutto, una progressione temporale, ma anche tematica, del mio percorso espressivo. Avevo portato circa 80 opere e ci sarebbero state, ma poi ho preferito sfrondare: ogni opera è storia a sé, chiede respiro, attorno, non si deve interrompere lo sguardo e la riflessione su di essa facendosi “disturbare” dalle successive. Così ne ho individuate una sessantina, le più rappresentative: ognuna ha il giusto spazio ed è una tappa di vita artistica.
Qual è la sua opera preferita?
Di solito si dice “l’ultima”, ma non è così: tra le più care per me, ci sono bozzetti e disegni magari considerati marginali, alcuni studi preparatori per le sculture e disegni delle persone della mia famiglia.
Come valuta l’ambiente artistico friulano, ora?
Molto cambiato. Una volta c’era uno spirito diverso, voglia di parlare d’arte, riunirsi tra artisti, “fare insieme”. All’inizio ci si trovava in locali, osterie, in una galleria sotto il Comune. Ora credo manchi una “casa dell’arte”, c’è individualismo e manca nei giovani lo stimolo a mettersi insieme e confrontarsi. L’arte non è sufficientemente presente nella loro formazione. Almeno avessero portato a Udine l’Accademia: forse si sarebbe ricreata una fucina, in città, in mezzo ai palazzi e all’arte. Villa Manin è splendida e si possono creare grandi eventi, intendiamoci: ma i ragazzi, all’Accademia, devono andarci in autobus o in macchina e appena fuori di lì non c’è nulla; ognuno, finite le lezioni, torna a casa sua. Non c’è continuità artistica, non si aiuta lo sviluppo di legami tra i ragazzi né si permette di creare un indotto di negozi dove trovare gli strumenti del mestiere, una rete di luoghi di ritrovo e di diffusione della cultura artistica. Chissà se decideranno di cambiare.

Nessun commento: