28.6.10

Romani

Come sanno ricompensarti il disturbo di una coda alla cassa per un "che cell'ha da scambiarmi 'sti ducento euro de spicci?"

24.6.10

Confindustria: l'Italia fuori dalla recessione

Sappiamo essere fuori bene proprio da tutto.

23.6.10

Amarcord

Non è per parlare sempre di papà. Però mi è venuta in mente una cosa, mentre rincasavo, un paio di mezzore fa, dopo una visita ai miei e un aperitivo in collina con le amiche. Un aperitivo fuori, ma dentro un tramonto con una luce quasi irripetibile, di quelle che danno un'aura speciale a un posto che sarebbe comunque magico anche con la pioggia di novembre. Insomma, rincasavo con una buona dose di delicatezza nel cuore, gongolando mentre rileggevo un messaggino proprio bello ricevuto qualche minuto prima, fatto su misura per rendere più lieve l'attesa. 
Parcheggiata pirotecnicamente la macchina in una via vicina a casa, imbocco la solita scorciatoia che fa slalom tra una manciata di palazzoni nuovi, signorili ma un po' alieni. Stile Eur, per intenderci. Da una delle siepi divisorie, potate da un amanuense, spunta la testa di un uomo, impegnato a guardare giù, sorridendo. Appena la prospettiva mi si apre davanti ai piedi, riesco a vedere che cosa sta guardando. Un bambinetto mini su una bici mini. Concentrato per cercare un equilibrio, evidentemente ancora incredulo di avere solo due ruote grandi sotto il sedere. 
Ora c'è il caschetto protettivo, d'accordo. Ci sono le ginocchiere e le "gomitiere", che i bambini, più che per una scampagnata, sembrano pronti per una partita di hokey o per il combattimento finale di Rocky. Ma è sempre lo stesso. Lo stesso di quando io avevo cinque anni e, nel giro di un pomeriggio, papà - instancabile - mi inseguì per una via di porfido fino a che non riuscii a sfrecciare in bici senza le rotelline. Sono momenti importanti, ho pensato.
Eravamo a Carignano, in vacanza dagli zii. Su quella strada antica (ora si direbbe Ztl) passavano pochissime auto, ogni tanto un motorino. Il pomeriggio, ho pensato ancora, era proprio simile a quello di oggi. Tiepido e luminosissimo. Io avevo solo un vestitino e la treccia stretta che mi faceva sempre la mamma scivolava nel vento. Non avevo nessuna armatura addosso, ma andavo lo stesso. Cadevo, inciampavo, mi arrabbiavo e ricominciavo. I pantaloni di papà erano corti come quelli di questo papà. Stesso sorriso di questo papà. Stessa soddisfazione di questo papà. 
Siamo andati avanti, stremati ma infaticabili, fino a che ce l'ho fatta. Fino al tramonto. Un tramonto con tanta poesia. Un tramonto, ho pensato, proprio come quello di oggi.

15.6.10

Scienze&Tecnologie (*)


Tutti i segreti del Dna di Ozzy Osbourne

Dopo decadi di alcol e droghe è sempre vivo e cosciente

(*) lo dicono loro, of course. serve che aggiunga altro? no, vero?

13.6.10

se hai...

                                            
...si vede

10.6.10

Let's just breathe

Live da Austin. Che è Austin, eh.

9.6.10

Brit pop (up) cooking


Si accetta comunemente che gli inglesi siano gente pratica, e può essere anche vero, visto che riescono a contrarre l’incontraibile, tipo you in y’, trasformando la mia ammirazione per la lingua in vero e proprio culto. Certo, resta da trovare una giustificazione al testardo disprezzo per il miscelatore del rubinetto, in favore – inspiegabile – del doppio bocchettone, che ti costringe a fare la spola con le mani tra acqua calda e acqua fredda, acqua calda e acqua fredda, rendendo il primo gesto mattutino più complesso del mondiale di ping pong contro la Cina. Mi attardo in queste poco utili riflessioni su cliché e oggettività mentre m’imbatto in roba inglese. Foto dal Corriere, Downing Street in versione yesterday–today-tomorrow. Collego sobrietà, eleganza e humour, rabbrividisco al pensiero diagonale di Beckam e signora, colleziono stereotipi su stereotipi, insomma, dal bagno moquettato alla cucina più disprezzata della terra. Vado sul sito del Guardian seguendo il filo dei pensieri, cerco ricette per un piccolo festeggiamento brit pop (up), ancorché virtuale. Ripenso “cucina inglese”. Ricollego “morte”. La madre di tutti i luoghi comuni. Ma perché, allora, mi viene subito in mente l’haggis? Un salsicciotto rivoltante e pulp, made in Scotland, che dovrebbe essere bandito per sempre dalle tavole del genere umano con una dichiarazione ufficiale dell’Oms. Ricordo subito, però, che le Organizzazioni mondiali di qualsiasi cosa hanno meno potere contrattuale di un ventenne impreparato di fronte alla commissione d’esame di procedura penale. Perciò mi arrendo. Se qualcuno osa controbattere che la Scozia non è l’Inghilterra, cito immediatamente il black pudding e metto a tacere ogni polemica. Eppure, continuo a ritenere che la cucina britannica non sia poi così male, con la consapevolezza che tutti gli stereotipi nascondono un’aura di verità. Ritengo che la sua pecca maggiore sia l’estetica e che tenda a mischiare un po’ troppe cose, coprendo il disastro visivo, nella maggior parte dei casi, sotto quel cappello di pasta frolla che prende l’invitante nome di pie. Nel caso della pie di rognone (quei simpatici mistificatori si ostinano a chiamarlo affettuosamente kidney, neanche fosse una fragolina di bosco), il disastro non è solo visivo, ma come si può disprezzare la lussuria di un untuosissimo fish&chips? Come criticare la pasticceria minuta, la "biscotteria" piena di burro e colesterolo e altrettanto zeppa di buonumore? Preferisco sempre abbinare il nome pie a quello più apprezzabile di apple. O, ancora meglio, rivolgere tutte le mie attenzioni al cheese cake, considerando i rarissimi concorrenti in grado di batterlo in semplicità e squisitezza. Approdando su questa pagina, poi, appago gola e anima, scoprendo tutta la dolcezza della torta qui sopra. E mi piacerebbe davvero cucinarla oggi, oggi che c’è un ottimo motivo, magari sostituendo la composta di lampone con quella di mirtillo.

4.6.10

Sixty-three


La bionda è mamma, che adesso starà spadellando e preparando una tortina, mescolando cose improbabili con quello che c’è in casa e riuscendo come sempre, inspiegabilmente, nel miracolo. Papà, invece, sarà appena arrivato dalla passeggiata con Jordi (è lui che porta a spasso mio padre), si siederà a tavola e attenderà il servizio impeccabile di mamma, ascoltando il Gr.
Papà è castano. Cioè. L’essere castano o moro è retaggio di quando aveva i capelli. Uno dei miei primi ricordi d’infanzia è quello di lui che si friziona la testa con qualcosa di molto simile a napalm e zucchero, lozioni e unguenti radiattivi che nei primi anni ’80 mettevano in commercio promettendo crescite prodigiose e rampicanti. L’ultima spiaggia prima di Cesare Ragazzi, bersaglio dell’invidia segreta di papà durante lo zapping notturno. Il guazzabuglio pop-radiattivo, ovviamente, non ha mai funzionato. Ma papi non si è arreso al riporto: è stato uno dei primi a sfoggiare il look “rasato”, presto – anche se mai abbastanza – diventata abitudine di buon gusto per tutti i sovrapproduttori di testosterone. 
Papà è anche quello per cui, all’asilo, le suore mi aiutarono a costruire il primo, sbilenco posacenere (erano altri tempi) con il Das. Mio padre è chiaramente quello che non ha mai fumato una sigaretta in vita sua. Papà è quello che, quando ero alle elementari, mi prendeva sulle ginocchia, la sera. Tornava a casa verso le nove e apriva il libro d’inglese. Insieme ripetevamo “floor” e “ceiling”, “how are you” e “nice to meet you” (probabilmente anche “he told…”), e questo esercizio mi ha aiutato ad amare da subito tutte le anglofonie e, quanto meno, a non confondere mai cold con caldo. Papà è quello che parla poco e che quando si arrabbia basta uno sguardo e incenerisce foreste. Papà è quello che il sabato pomeriggio, d'estate, prende il giornale e va al mare o sul fiume, comunque in un luogo in cui possa essere certo di non trovare nessuno, ma proprio nessuno. È quello che pota le rose e cura le orchidee. Che sa di matematica e chimica e pure di grafologia (?). Quello che “se non fosse per tuo padre non avrei mai preso la patente”, ma che quando la dovevo fare io cominciò con una partenza in salita su una strettoia a San Daniele.
Papà è quello che non voleva cani e che ora è il migliore amico di Jordi la belva. Quello che sa aggiustare, assieme all'assistente peloso - come testimonia la foto qui sopra -, tubi, impianti e tutte le cose dotate di almeno un filo elettrico. Ed è contemporaneamente quello che, per preparare la pasta, la butta nell’acqua fredda, subito dopo aver riempito la pentola.
Papà è anche quello che ha bocciardato losanghe sul cemento del soffitto. Che dice ròsso e vèrde perché è semi-veneto. Che mi ha lasciata viaggiare. Che si è sciroppato con la mamma 20 anni di saggi di danza e che ora sa che cosa vuol dire ballare. Quello che mi ha accompagnata a cercare l’appartamento in città e a cui è piaciuto quello che piaceva a me. 
Papà è quello che tante altre cose, ovvio. Quello che, pur non essendo lui il biondo di casa, oggi risponde “grazie, anche a te” al mio sms “Tanti auguri, papi!”.

1.6.10

Non c'è tempo neanche per soffrire

Lo assicurano gli organizzatori - «in esclusiva» - del primo Speed Dating del NordEst. E allora cos'è il brivido di tristezza che mi si sta arrampicando come Manolo lungo la colonna vertebrale? Ti siedi a un tavolo, rigorosamente da due, per pochi minuti. Dai il meglio di te. Poi suona la campanella. Ti segni il numero del "pretendente" e un giudizio sintetico. E avanti un altro. Un'agenzia per single - un'agenzia che immagino leader del settore - verifica i risultati delle "schede di valutazione": quando l'esito è un reciproco , scatta lo scambio di contatti eccetera eccetera. Lo sto spiegando più a me stessa che al resto del mondo, in verità, poiché suppongo di essere uno dei rarissimi esemplari di femmina che non ha mai visto nemmeno 10 secondi di Secsendesìti, trampolino di lancio del "fenomeno" Speed. Quando mi è arrivato il comunicato, poche ore fa, è stato come assaggiare una madeleine. Il nastro si è riavvolto istantaneamente a ere geologiche fa. Pieno Prenokiano. Identica tristezza. Un locale aperto, credo, all'inizio degli anni '90, a Udine. Era una cosa di gruppo. Atmosfera tipica della sala da bowling, ma in forma di pizzeria. Su ogni tavolo un telefono da cui si potevano chiamare gli altri tavoli. E fare, dunque, amicizia. Ci entrai un'unica volta con un crocchio di compagni di liceo. Eravamo tutti sedicenni o giù di lì. Inutile dire che il fatto di rispondere «Fantocci, è lei?» al primo squillo non aiutò granché le nostre relazioni sociali. Ricordo però nitidamente le luci fredde, un misto fra lo stadio Olimpico e lo studio del dentista. Ricordo le tovaglie color crema e il trapuntato a fiori che ricopriva le cassapanche, petali sbiaditi dalle ripetute frizioni di chiappe in blue jeans. Ricordo le nebulose create dal fumo e un certo imbarazzo diffuso tra i commensali, più o meno tutti ragazzetti come noi, mini-friulani alle prime uscite e per ciò stesso intimiditi da una rivoluzione tecnologico-sensuale piuttosto attesa ma istantaneamente delusa. Ricordo, infine, il senso di tradimento: non c'era nemmeno una primitiva forma di segreteria telefonica. 

«Nessun requisito è richiesto, tranne essere sè stessi (sic). Esasperando la velocità di ogni incontro, si aumenta a dismisura il fascino del pretendente o lo si annienta già dal primo scambio di battute: quando si ha poco tempo, infatti, non si può fare a meno di semplificare», dicono ancora dello Speed. E, infatti, si tratta di «un’idea semplice ed economica - aggiungono - per “massimizzare i profitti” riducendo i tempi al minimo». 

Passano gli anni. Ma certe emozioni restano le stesse.