31.3.10

homemade marshmallows

ingredienti
2 1/2 cucchiai di gelatina
acqua fredda
1 1/2 tazza di zucchero
1 tazza di glucosio
1/2 cucchiaino di sale
2 cucchiai di estratto puro di vaniglia
zucchero a velo (per spolverizzare)


attrezzatura
mixer; termometro per alimenti; padella; teglia da forno

indicazioni
mescolare la gelatina e mezza tazza d’acqua fredda con un mixer dotato di frusta (no, non quella con l’impugnatura di pelle, marco). lasciate riposare per 30 minuti. mescolate zucchero, glucosio, sale e mezza tazza d’acqua in una pentola; mettetela sulla fiamma leggera e mescolate finché lo zucchero si scioglie completamente. tenete pronto il termometro. cuocete lo sciroppo senza mescolare finché raggiunge la temperatura di 244° f (ripassate le equivalenze*). spostate immediatamente la padella dalla brace (sic). con il mixer a bassa velocità versate lo sciroppo sulla gelatina ammorbidita. aumentate la velocità fino alla massima, finché il composto diventerà bello tosto e bianco & avrà pressoché triplicato il volume (ripassate la geometria). aggiungete la vaniglia e sbattete ancora affinché si incorpori bene. spolverizzate generosamente di zucchero a velo una teglia da forno di 8x12 pollici (cfr. supra *) e versatevi dentro il composto di marshmallows. spolverizzate ancora con lo zucchero a velo; lasciate riposare una notte, perché si asciughi. poi tagliate tutto a striscioline e a cubetti. e spolverizzate again and again ogni cubetto perché sia meno appiccicoso della colla moschicida.
p.s.
se trovate tutto questo dannatamente seducente ma:
1. alle parole “termometro” e “cottura dello zucchero” avete perso metà dei capelli, mentre il resto della parrucca vi è istantaneamente ingrigito come neanche a maria antonietta;
2. dalla quinta liceo sbandierate ai quattro venti, con una certa sicumera, che «la matematica non sarà mai il mio mestiere»
allora fate così: 

scendete le scale e correte al supermercato più vicino, reparto caramelle, dolciumi e carie. individuatene un sacchetto ciccioso e addirittura colorato da 8 oz e permettetevi il lusso di credere che si tratti solo del famoso mago di. cercate di resistere fino a casa (aiuta molto la preghiera, cit.) e appoggiate il libidinoso involucro sul tavolo. non lasciatelo incustodito. estraete un paio di birre dal frigo – ripeto: senza voltare mai completamente le spalle ai marshmallows. sono frequenti fenomeni di sparizione in seguito ad abbandono –  e versatevene due pinte (i bicchieri che avete inculato a san patrizio – la festa – vi renderanno superfluo qualsiasi calcolo). condividete questa gioia con una persona speciale. sì, tipo quel texano vestito da cow boy che vi ha seguito fino a casa riuscendo a fischiettare john denver con il sigaro in bocca.

io sono quella del p.s.. quindi i marshmy della foto non li ho fatti io, ma loro.

30.3.10

non posso averlo detto davvero

squilla il telefono. 
sollevo la cornetta.
io: «sì?»
lei: «sono manuela»
io: «ah, manu! ciao»
loser

 








(qualcuno può spacciarmi un mp3 con le risate finte di striscia la notizia? eh?)
(aggiornamento: ringrazio sentitamente c. per avermi mandato l'emmepitré. ora passo alla seconda domanda: qualcuno può insegnarmi a linkare il succitato emmepitré? loser bis...)

29.3.10

benchmarks*


La sveglia suona alle 7.40 perché il contratto dice “al lavoro alle 8.30”.
Ma lei si alza alle 8.20.
Merda.
Ritardo.
Di nuovo.
 
Tachicardia.
Non va. Non va.
S’infila dentro i jeans e le scarpe da ginnastica in una mossa sola, si sciacqua il cuscino dalla faccia. 

Se solo le piacesse ancora lavorare lì!
Deodorante, maglietta pulita, occhiali, borsa, chiavi della macchina.
Partita.
La strada è sempre quella e la macchina va da sola. La strada corre sotto le ruote, la musica si accende, perché la musica non può mancare. Perché la musica è il suo vero mestiere e lei lo sa, ma non abbastanza.
Un gomitolo di pensieri nella testa che odora ancora di lenzuola. Si srotola, centro metri alla volta. Man mano che capisce che, nonostante tutto, ce la farà anche oggi. Sempre sul filo. Sempre.
Riuscirà un’altra volta a schivare il cazziatone del capo, lo sguardo sconsolato e molesto di una collega sempre più inutile.
Ce la farà perché oggi c’è il sole. E perché nel disordine del mattino e nell’assenza di stimoli, per fortuna, ritrova i suoi punti di riferimento.
Il nonnino che mette la freccia per fermarsi in panificio. Il postino davanti al supermercato. Lo scuolabus che arriva dalla direzione opposta più o meno all’altezza dell’incrocio.
Allora si rilassa un po’, mentre si scioglie la ruga di orrore che le si era scalpellata sulla fronte appena aveva visto l’ora, svegliandosi di soprassalto.
Su il volume, signori!
E il riff è più frenetico, quasi metal, nel live che pulsa attraverso lo stereo.
I took a drive today
Try to emancipate

E adesso arriva anche lui.
Adesso ci siamo tutti.
Auto sportiva.
Scura.
Arriva alle spalle.
I seem to look away
Wounds in the mirror waved

Canzone perfetta, momento perfetto. E lui, insulsamente, perfetto.
S’incrociano ogni giorno. Da quanti mesi? La mascherina rettangolare degli specchietti è il loro muto confessionale e i loro occhi appiccicati lì sopra gli unici vocaboli di segrete, reciproche ammissioni.
Lui supera e si lancia in avanti. Poi rallenta. Ed è il suo sguardo a specchiarsi, adesso. Ad ammiccare verso di lei. A farle l’occhiolino. A suggerirle «Ora tocca a te».
Freccia e via: un sorpasso lento, per restare affiancati per pochi istanti, il tempo dell’unico sorriso che non sia riflesso, da un finestrino all’altro.
Una volta ancora questo piccolo rituale, che non c’è traffico sulla strada.
Una volta ancora questa assurda, elettrizzante intesa.
Poi lei svolta a destra. Lui prosegue. Lei sta meglio. Come sempre.
Il piccolo rituale del buongiorno, il piccolo respiro prima di immergersi in una giornata di fatture, carico e scarico. Di gestione idiota dell’azienda, di visioni del mercato oblique e distorte dalla sciatteria.
Once you were in my
Rearview mirror

Il piccolo rituale del buongiorno. Così rituale che no, neanche stavolta si segnerà la targa.
Perché è insulsamente perfetto così.

(racconto liberamete ispirato a una confessione notturna di c. 

e titolo * intenzionalmente ispirato a un migliaio di risate con s.)

26.3.10

biondi (anche) dentro

sorriso per un'amica 
 
29 agosto 2009. interno notte. perché siamo dentro ed è circa mezzanotte. 
chia e cri nel bar più inflazionato e cool dei colli morenici.
cri esce un attimo e rientra con due secchielli e un'espressione orgogliosa.
cr. «guarda!»
ch. «hai giocato alla pesca?»
cr. «mannò, stupida, sono quelli della sangria dell'altra sera... me li hanno portati!»

pochi minuti dopo entra il tommy. qualche abbraccio ed "era ora!". poi cri solleva verso di lui i due secchielli, con immutato orgoglio.
cr. «guarda!»
to. «hai giocato alla pesca?»
cr. «°##@§*^\&§ç/<*!!!»

22.3.10

genio

chip: permalosetto, eh? 
tru: sì.
chip: secondo me da piccolo eri quello che a un certo punto, in mezzo alla partitella di calcio, s'incazzava e si portava via il pallone.
tru: sì. e non era mai il mio.

21.3.10

piccolo racconto di primavera


domani sarebbe il compleanno del nonno. nonno marco. 22 marzo 1908. dico sarebbe perché nonostante le apparenze non era un highlander e si è fermato solo a 95. ma fino a poco tempo prima piegava il ferro in mille volute, regalando alla nostra casa - la mia e dei miei, intendo - cancellate per porte e finestre che tuttora sembrano scaturite dal prurito al naso di un folletto. una piccola magia. aveva imparato a venezia l'arte di addomesticare il fuoco e le mani, il mantice e la fiamma, per riuscire a far fare a quella materia nera quello che gli pareva. erano gli anni della guerra, del fascismo, e lui studiava per diventare maestro d'arti e mestieri. la nonna cini, come dicevan tutti, era nata pochi mesi prima del nonno, quel poco che le era bastato per essere della classe del '07. la nonna cini si chiamava in realtà carolina. ed era talmente grande da essere doppia, come i due stati che guardano l'atlantico. lei però guardava l'adriatico, sempre da lì, dai bordi di quella città d'acqua, di sogni e colori. era in collegio dalle suore e ripeteva latino e matematica, italiano storia e geografia per diventare una brava maestra di scuola elementare. lavoro che avrebbe fatto poi per tutta la vita, tanto da diventare per tutti la "maestra cini". in quegli anni era una simpatica testa calda con i capelli venati di rame. ribelle per scherzo, solo perché come tanti ragazzi irrideva il regime della ginnastica, degli inni, delle parate e delle imposizioni, senza ancora rendersi conto davvero, mi raccontava spesso, di quello che sarebbe successo. sfuggiva volentieri, ma senza esagerare, ai regolamenti e ai "si deve", e scriveva un blog, ehm, un diario, che tuttora i miei conservano come una reliquia, un dario in cui raccontava quei giorni, le compagne di stanza, le insegnanti arcigne o divertenti, i vespri e le scappatelle, gli eventi e i piccoli grandi segreti da "cioè" d'antan, come ogni ragazza del liceo che si rispetti. 
insomma, sarà anche che venezia, mi dicono, è sempre stata una città piuttosto romantica, ma a un certo punto il binomio ferro&rame fece reazione. e non mi ricordo nulla di chimica, quindi non sognatevi di chiedermi che cosa salta fuori da quel miscuglio. quello che so è che lui era un tipo tosto. un tipo serio e riservato. che lei era invece un vulcano. e la formula piacque proprio a entrambi. anche se, sulla soglia dei 90, la causa dell'attrazione fatale era diventata, classicamente, il motivo dei soliti battibecchi di una coppia che sta insieme da 70 anni. ma provateci voi.
quello che so, inoltre, è che da quando ci fu la fusione, diciamo, la società andò avanti più o meno tranquilla con lo stesso cda e sotto la stessa proprietà: marco e cini si sposarono in una deliziosa chiesa che si specchia ancora sulle acque del canal grande. e vissero felici e incazzati, allegri e impegnati, normali e speciali, per tanti, tanti anni, regalandomi il mio papi, i miei due zii, e un sacco di altre cose. passione per i libri compresa.
ecco, domani il nonno avrebbe compiuto gli anni. mentre oggi è il primo giorno di primavera. e non mi è venuto in mente niente di più prezioso di quell'incontro di tanti anni fa per salutare questo rinnovato, nuovissimo, delizioso inizio della vita. che si ripete, lo so per certo, almeno dal 1928 al 2010.

20.3.10

Dixies. And more


È gigantesco, proiettato sul monitor. Ed è gigantesco anche seduto in sala, fila 10, da dove si gusta la sua idea messa in scena, la analizza, valuta l'interpretazione, si segna i suggerimenti da dare, a sipario chiuso, ai suoi artisti. Lì, a due passi da te. 
La sua voce è quella di un baritono nero che canta la storia d'America, in una sinfonia divina, fatta di tasselli di poesia, danza, scenografia, musica, luci, gospel. 
Lincoln e Richmond, Virginia. 
Philadelphia e le rovine abbandonate dalla coda della Guerra civile.
Il colonnato della Casa Bianca e le catene di una schiavitù che è una donna, un uomo, un luogo. Nati nel 1841, nel 1952, nel 1985. 
E quant'altro, direbbe qualcuno. 
Andate avanti voi. Valutate voi. Giudicate voi. 
Io semplicemente mi lascio prendere e portare via. 
Dico solo che la grandezza e l'intelligenza di un artista si misurano anche sulla sua disponibilità. Sul suo mettersi a disposizione del pubblico. Seduto su una poltrona, spiega con chiarezza e senza superbia, condivide, regala agli spettatori un prologo essenziale, che dà la chiave, decifra il lavoro e offre in dono il segreto prezioso della nascita di una creazione artistica. 
Poche parole. Cinque minuti d'introduzione. Splendido Omero dalla pelle scura, pienamente consapevole di doversi ancora tergere dalla fronte il sudore sgocciolato su miliardi di batuffoli di cotone. 
Lo spettacolo perfetto. Dove c'è tutto. Senza bandiere eppure pieno zeppo di stelle e strisce. 
E pensi che no, questo non può essere un caso. Dev'essere proprio una coincidenza. Di quelle speciali. Un segno con la S maiuscola.

18.3.10

e sticazzi?

leggiamo e, volentieri, rimbalziamo:

Fiocco azzurro in casa Briatore 

È nato Nathan Falco

Elisabetta ha avuto la meglio sulla scelta del nome

   

(e tante, tante congratulazioni)

 

17.3.10

dei micromiracoli e della macromeraviglia

il bello della notte è che talvolta viene giù subito, come un sipario. che neanche te ne accorgi, perché sei presa a digitare, a fare mille cazzate, telefonate, pipì, caffè, ancora una sigaretta e leggi questo e quello.
altre volte arriva lenta e ti avverte con quel sospiro, quello inconfondibile, proprio quello di jeff che prende fiato per cominciare a raccontare una roba struggente, la maledetta storia dell'amore. quasi dicesse "che fatica, ragazzi. ma ne vale sempre la pena, per cui mettetevi comodi che adesso si parte". 
quando arriva lenta come questa sera qui, questa di cui sto parlando, in pratica, succede che stacchi per un attimo gli occhi dal computer perché vedi rosa e rosso e blu. ti alzi dalla sedia e appoggi il naso alla finestra. una stella, tutta sola, sbuffa, guarda l'orologio e aspetta impaziente che spuntino le sorelle ritardatarie. il fondale del cielo cambia d'intensità come il soffitto del rossetti prima dell'inizio dello spettacolo. sfuma piano piano, scolorando dall'imbarazzo del rosso fino alla sicurezza del nero totale, bagnato da quelle microlacrime di luce che via via si fanno coraggio e si decidono ad andare in scena.
a quel punto è fatta. puoi staccare il naso dalla finestra, cambiare musica e scegliere per esempio pride, perché sei orgogliosa, questa sera. impaziente, questa sera. puoi estrarre la farina e il lievito dalla borsa della spesa e mettere alla prova la macchina del pane per la prima volta. che è arrivato il suo momento. proprio stasera, sì, che c'è qualcosa di frizzante nell'aria. qualcosa che rassicura anche il tuo essere ancestrale, il tuo essere archetipicamente e banalmente donna. e mentre la macchina comincia a fare da dio il suo lavoro - perché, quando sei così, funziona tutto alla perfezione e riesci ad asservire al tuo sorriso qualsiasi tecnologia -, puoi metterti a tagliare il pollo in tanti bocconcini, spolverarli di farina, buttarli in pentola con un po' d'olio e un secondo prima mandare un sms. quindi imbottirli di curry, canticchiare e versarci sopra del succo d'arancia rossa appena spremuta. e attendere ancora un poco. solo un altro poco. perché stasera la tecnologia ti asseconda e tu sei il direttore d'orchestra. un secondo dopo che il pollo è cotto, suona la macchina del pane, ufficializzando il fatto che quello squisito profumino era davvero sinonimo di "well done". e un secondo dopo ancora suona il campanello. quello del portone, giù a basso. 
tutto torna, stasera. 
tutto perfetto, stasera.
voilà.

15.3.10

indovinello

cos’è quella cosa che quando non ce l’hai ti manca anche inconsapevolmente ma tutto sommato vivi lo stesso e poi quando ce l’hai nel senso che la percepisci forteforte finisce che ti manca comunque perché non puoi tenertela in tasca tutto il tempo e devi tipo aspettare almeno fino a stasera mannaggia?
un aiutino: comincia con esse.

n.b. no, non è sale&pepe, il "magazine" che si è materializzato oggi nel bagno del quinto piano e che ho interpretato come un cortese quanto inoppugnabile invito a usare un’altra toilette. e no, marco, non è la siga.

ieri


ma anche oggi.
'cause everything 'round here is so, so delicate...

12.3.10

Grazie (al cazzo) per la considerazione

Ne parlavo con T., stamattina. Devo ammettere, gli dicevo, che io sono anche fortunata, perché ho gli occhi azzurri e le tette piccole. Quindi lo sguardo del massschio si sposta sì sul decolté (o come diavolo si scrive), dopo pochi istanti. Ma quasi subito ritorna sullo sguardo. C’è da buttarla sul ridere, ma da buttarla sul ridere con la testa. Specie oggi che non è l’8 marzo, oggi che non è un giorno speciale. Come non c’è un giorno speciale per rimarcare una considerazione sociale né tanto meno c’è un giorno speciale per farsela calpestare (la considerazione). Non parlo di quegli automatismi istintivi e totalmente innocui praticati indistintamente da eterosessuali, omosessuali o bisessuali, atteggiamenti che sarebbe stupido e ottuso criticare. E non parlo nemmeno, all'opposto, della violenza “vera”, capitolo a parte, fiumi di parole a parte da trattare a parte e con tenore a parte. Oggi mi riferisco “solo” a quelle cosette apparentemente inoffensive, fatte per semplice tonteria o superficialità, magari non con cattiveria né consapevolezza. Anzi. Ed è l'"anzi" il dramma.
Qualche rapido esempio, che il discorso diretto di solito è più efficace: 
1. «Adesso capisco perché ti ha presa, il presidente» (mentre ti fa una Tac completa squadrandoti dalla testa ai piedi senza il minimo pudore, che neanche il dottor House).
2. «Ancora 5 minuti prima della riunione, ma vi lascio in compagnia di questa bella ragazza» (che vi intratterrà - per inciso - non parlandovi di politica, ma accavallando alla Sharon Stone).
3. «La mora e la bionda, le veline dell’ufficio stampa» (tralasciando peraltro che neanche se una prendesse l'altra sulle spalle arriverebbero all'altezza di una Costanza Caracciolo).
4. «Sai con chi se la fa adesso? Con l’assessore ***/l’amministratore delegato ***/il presidente di ***» (hai appena cambiato lavoro, metti caso che quel lavoro ti piace pure e che magari non sei neanche malaccio, professionalmente. E che quel lavoro è visto dall’esterno come un posto di un certo prestigio)
Qualche esempio a caso. Tutte conclusioni a cui si arriva partendo dal postulato che una donna deve aver fatto dei pompini di tutto rispetto a qualcuno di tutto rispetto per essere dove è. Stessa storia quando perde il lavoro: come direbbero a Quark, dopo qualche mese, a causa dell’usura, i denti della femmina tendono ad affilarsi troppo; ella comincia a diventare insopportabilmente petulante, come lavoratrice, perciò viene scaricata. 
Bene, oggi che è un giorno qualsiasi e non è un giorno speciale, è un giorno secondo me giusto per ricordare uno spot (grazie sempre a T.) e un documentario (grazie ad A.). Il primo intelligente e scanzonato. Il secondo serio e pure un po' inquietante, altrettanto intelligente e responsabilizzante, quanto meno per chi vi parla, nel senso che evidenzia come siamo anche noi donne – genere femminile, singolare e plurale, individualità e condivisione di gruppo – a "permettere" di essere guardate così, di essere interpretate così. E talvolta siamo anche brave ad approfittarne. È drammaticamente vero. Ed è difficile stabilire un confine tra le colpe e le volontà, quando si è culturalmente e istintivamente portate a sentirsi bene, a sentirsi belle, a farsi guardare, mentre allo stesso tempo si deve dimostrare di avere un paio di coglioni in più di un uomo, per farsi considerare. Sto attenta perché il ghiaccio è così sottile, il confine è quasi Schengen, maledizione, che si rischia di scivolare nel più becero lago maschilista. Mi difendo subito: non sto affatto cadendo nella trappola tesa da quella mandria di deficienti che sbandierano presunti atteggiamenti provocanti della donna come giustificazione di una violenza. Intendo parlare proprio d'altro. Dire cioè che molte volte siamo noi, io e noi tutte, a farci calpestare, ad andare a sbattere da sole contro un muro, con eccessiva leggerezza. Il muro sono gli stereotipi, sono le abitudini, è la cultura pseudoreligiosa, sono le facce di plastica e i culi di marmo, l’assenza del tempo, l’assenza del cibo, le foto, la tv, gli spot delle merendine e delle famiglie perfette e felici. Il tampax promozionato durante le soap opera e la recensione dell’ultimo completino giallo di miss Obama riservata rigorosamente a una giornalista donna. La forza smisurata dei pièrre della facciata. 
E noi che li assecondiamo in silenzio.
Insomma, non so se alla fine sono riuscita a dire quello che volevo dire - mi capita spesso e perciò altrettanto spesso penso di cambiare mestiere (e dunque partner sessuale, ça va sans dire). Però ci penso, no? E anche sorridere sempre, sorridere solo, semplicemente darla vinta, anche di fronte ai più piccoli, insignificanti soprusi, non è un segno di superiorità. Forse è un po' una stronzata. Fare il proprio lavoro, essere simpatiche, essere professionali, possibilmente fighe e non trasformarsi mai nella suocera acida frigida arcigna bisbetica che nessuno vorrebbe avere. Mica facile, sapete. E io non ho soluzioni o dogmi da imporre, perché non sono una stratega né una psicologa né una politica. E poi il dibattito è aperto: quanto siamo consapevoli del nostro potere sessuale? Quanto ci è utile e quanto lo usiamo noi stesse per ottenere vantaggi? Ancora: quanto è vendetta cosciente e quanto è invece assimilarsi a una comunità basata sul gusto del maschio? 
Magari vale la pena di pensarci su una volta in più. E non dico di essere violente, ma di essere sveglie e decise. Di usare la testa. Magari sorridere, ma sapere che esiste il sarcasmo. Non dico di rigargli il suv, insomma. Anche se, a dirla tutta, so benissimo dov’è parcheggiato... 

p.s. Quasi dimenticavo una cosa non certo secondaria. T. e A. sono due uomini. Di quelli speciali, che certe volte ti fanno diventare matta, ma che, sempre, ti fanno sentire fortunata. Perché la vita ha voluto che tu incrociassi i loro passi.

11.3.10

ecco perché fare il free lance va così di moda

Data esecuzione:                  26/02/2010
Data valuta:                         26/02/2010
Tipo movimento:                  Avere
Importo:                              +6,39 EUR *
Causale abi:                         **
Descrizione operazione:        Bonifico a Vs favore collaborazione mese gennaio

(*devo aver scritto solo il virgolettato di un titolo tipo questo...)

9.3.10

sognidoro

...col vento fuori che si mette in pausa e prende il respiro, per soffiare sbuffi fortissimi e poi riprendere fiato di nuovo, caricare il suo cannone e sparare un'altra volta... e si sente uno sfrigolio nell'aria, come se un milione di sacchetti di plastica, di quelli da discount, venisse stropicciato da due palmi e venti dita a ogni sospiro... ma non può essere vero... come non è vero che riesco ad andare a dormire subito. no, non ci riesco neanche stasera. ma adesso ci provo sul serio. giuro. ancora un mozzicone da pressare nel posacenere rubato, sul balcone. ancora un po' di musica, che è come se cosmic love fosse ascoltata with your hand in mine...

e buonanotte...

(grazie per la dritta involontaria a un involontario brit pop (up) man, in questa giornata da inferno di cristallo)

7.3.10

pippoparty

 
o quel che è rimasto: cioè disastro + ammmore

6.3.10

dica 33

platini suca
[tags: candeline, amicadiammmore, stappare, olé, allegria, crocifissione, dentiera]

4.3.10

presuntuoso [pre-sun-tu-ó-so] agg., s.m.

È questa la parola che cercava Eva, l’altra sera. Il suo maledetto vocabolo-tabù. Ognuno ha il suo. Casuale, stupido, assolutamente non-collegato al livello di cultura o scolarizzazione del soggetto dimenticante. Ci si ricorda un sinonimo, si sa benissimo a che azione o qualificazione quella parola fa riferimento. Ci si ricorda pure il suo contrario, magari. Ma non lei. Lei non viene mai in mente quando serve. La mia, per esempio, era “opportunista”. Dico “era” perché ormai l’ho superata, e giusto un istante prima di comporre furiosamente il numero del mio psicanalista di fiducia. A un passo dal baratro. Adesso mi torna sempre, subito, immediatamente. Ma fino a un paio d’anni fa, ogni volta che dovevo pronunciarla mi bloccavo, mi scattava lo screen-saver coi pesci, poi mi ricordavo tutto il Devoto-Oli e ogni singola raccomandazione della veltroniana Accademia della crusca. Tranne lei. Quanto l’ho odiata. Il confine tra memoria e oblio è davvero il tempo di un ruttino di coca sgasata. Vabbè, dicevamo? Giusto, dicevamo che la parola di Eva è quella che caratterizza la giornata di oggi. Presuntuoso. Plurale – e questo è il mio caso, perché oggi sono stata baciata dalla fortuna -: presuntuosi. Contrario di umili, di “gente a posto”. Sinonimo di boriosi, vanagloriosi, alteri e un’altra decina di lemmi che non faticherete a trovare con un semplice clic destro/thesaurus. Insomma, quell'esercito di personcine che hanno conquistato il loro posto luminoso in questa società di poveracci. E non si mette in discussione, capito? Quelle che hanno costruito, da bravi artigiani della molestia, il loro piccolo trono di guano nel bel mondo della provincia e che per questo semplice motivo pretendono. Sì, pretendono. Se fosse inglese, il false friend avrebbe un’accezione ancora più azzeccata, assestandosi su un significativo “fingere”. Quelle personcine lì, insomma, quelle che oggi hanno deciso di darsi appuntamento sui miei coglioni – e vi prego di notare come shifto (pardon!) con disinvoltura dall'inglese al francese -, di parcheggiarsi stabilmente tra le alture, lì sopra, e di provare fino all'esaurimento il "Cappello a tre punte", versione di Antonio Marquez. E sto parlando di flamenco. Quelle personcine misere e torve, che non si pongono domande, ma sanno porle così bene agli altri, inquisitorie, incredule per non aver trovato sotto i loro nobili tacchi il tappeto rosso dell'adulazione o della semplice “considerazione adatta alla mia casta”. «Ho visto con piacere che nell'articolo odierno non siamo nemmeno stati menzionati». Ironici. Essere brillanti e arguti è la loro mission, direbbero. Oppure/In aggiunta: «Io, IL caporedattore, mandare una mail per chiedere un appuntamento? (Segue velata ed elegante minaccia di polverizzazione di ogni tua richiesta di pubblicazione)». Niente autoanalisi (Forse non ho idea di come funziona un giornale? Forse è una prassi abituale che deve seguire anche il presidente dell'universo?), perché l'autoanalisi non è di chi sta seduto sul trono di guano. Solo spocchia e critica. Accusa. Vacua espressione di stupida e inutile supremazia. Be', chiamate pure le presidenze, le direzioni, la magica triade del potere. Lamentate pure la vostra lesa vanità. Fate solo una cortesia: quando venite smascherati dall'ultima degli stronzi che ha semplicemente fatto il suo mestiere, prima di svignarvela con la coda fra le gambe, spalancate le finestre e poi chiudetevi la porta alle spalle. Perché puzzate.