9.6.10

Brit pop (up) cooking


Si accetta comunemente che gli inglesi siano gente pratica, e può essere anche vero, visto che riescono a contrarre l’incontraibile, tipo you in y’, trasformando la mia ammirazione per la lingua in vero e proprio culto. Certo, resta da trovare una giustificazione al testardo disprezzo per il miscelatore del rubinetto, in favore – inspiegabile – del doppio bocchettone, che ti costringe a fare la spola con le mani tra acqua calda e acqua fredda, acqua calda e acqua fredda, rendendo il primo gesto mattutino più complesso del mondiale di ping pong contro la Cina. Mi attardo in queste poco utili riflessioni su cliché e oggettività mentre m’imbatto in roba inglese. Foto dal Corriere, Downing Street in versione yesterday–today-tomorrow. Collego sobrietà, eleganza e humour, rabbrividisco al pensiero diagonale di Beckam e signora, colleziono stereotipi su stereotipi, insomma, dal bagno moquettato alla cucina più disprezzata della terra. Vado sul sito del Guardian seguendo il filo dei pensieri, cerco ricette per un piccolo festeggiamento brit pop (up), ancorché virtuale. Ripenso “cucina inglese”. Ricollego “morte”. La madre di tutti i luoghi comuni. Ma perché, allora, mi viene subito in mente l’haggis? Un salsicciotto rivoltante e pulp, made in Scotland, che dovrebbe essere bandito per sempre dalle tavole del genere umano con una dichiarazione ufficiale dell’Oms. Ricordo subito, però, che le Organizzazioni mondiali di qualsiasi cosa hanno meno potere contrattuale di un ventenne impreparato di fronte alla commissione d’esame di procedura penale. Perciò mi arrendo. Se qualcuno osa controbattere che la Scozia non è l’Inghilterra, cito immediatamente il black pudding e metto a tacere ogni polemica. Eppure, continuo a ritenere che la cucina britannica non sia poi così male, con la consapevolezza che tutti gli stereotipi nascondono un’aura di verità. Ritengo che la sua pecca maggiore sia l’estetica e che tenda a mischiare un po’ troppe cose, coprendo il disastro visivo, nella maggior parte dei casi, sotto quel cappello di pasta frolla che prende l’invitante nome di pie. Nel caso della pie di rognone (quei simpatici mistificatori si ostinano a chiamarlo affettuosamente kidney, neanche fosse una fragolina di bosco), il disastro non è solo visivo, ma come si può disprezzare la lussuria di un untuosissimo fish&chips? Come criticare la pasticceria minuta, la "biscotteria" piena di burro e colesterolo e altrettanto zeppa di buonumore? Preferisco sempre abbinare il nome pie a quello più apprezzabile di apple. O, ancora meglio, rivolgere tutte le mie attenzioni al cheese cake, considerando i rarissimi concorrenti in grado di batterlo in semplicità e squisitezza. Approdando su questa pagina, poi, appago gola e anima, scoprendo tutta la dolcezza della torta qui sopra. E mi piacerebbe davvero cucinarla oggi, oggi che c’è un ottimo motivo, magari sostituendo la composta di lampone con quella di mirtillo.

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