15.1.10

...nel secooon-do imbrunireil cuooo-re...

Una chiave per chiudere la porta dell’ufficio, «ché rubano».
Una chiave per la macchinetta del caffè.
Un badge per l’ingresso, giù in basso.
E tre password: una per accendere il computer, una per lanciare il programma di posta, una per navigare in Internet.
Tre password, rigorosamente diverse, per stringere la mano all’anticristo della poesia. Quella cosa che non fa neanche rima perfetta. Solo quasi. Bu-ro-cra-zia.
Ufficio squallor che piace, però. Vista sul retro dei palazzoni del centro: l’imbarazzante luogo comune stile “quelli che ben pensano”. Davanti splendore, dietro orrore.
Il luogo comune borghese, nel centro della piccola città borghese, provincia del nord.
Le corti vaste e malinconiche, i garage cinerini, i muri che piangono lacrime di mascara nero, l’alluminio anodizzato di verande piene di spifferi, dieci piani di brutture, come grumi di polvere da nascondere sotto il tappeto. Come la stazione Tiburtina alle 7 del mattino, senza il vanto di essere Roma. Dietro, che non veda nessuno.
Perché davanti c’è il centro, ci sono le luci, i Suv, le Porsche, le dentiere massicce delle vecchiette indigene impellicciate, le vocali gonfie nelle chiacchiere di eserciti di badanti dell’Est, le strette di mano, il viavai indaffarato e industrioso, i clacson, le battute del barista, le lampade abbronzanti, l’agenzia dei viaggi per Sharm, le bomboniere-furto, il signor notaio, il barbone che passeggia con lo zaino (guai a fermarsi), il consulente, il medico, i ragazzini che fanno hip-hop, i cazzeggiatori professionisti, le brioche e gli aperitivi.
Dentro, dentro tutto questo, tra il davanti e il dietro... be’, dentro ci sono io.
La novità del posto confonde e salva. La novità della gente confonde e salva. La novità degli incontri, dei saluti, dei sorrisi, dei centoquarantamila colleghi di cui dimenticare istantaneamente (ma cortesemente) il nome.
E mentre esco dal cesso, prima che mi rifilino una chiave anche per quello, succede che butto l’occhio dall’altra parte del corridoio. Dove non ci sono le brutte schiene di cemento, ma c’è tutta la città che si sversa. Privilegi del panorama dal 5° piano. La torre del castello, il campanile di pietra della chiesa, i mattoni rossi del Duomo, la cupola del Comune. E, sì, qualche altro scorfano edilizio, dimenticato qua e là.
Ma è il tramonto. E per la prima volta dopo giorni, dopo secoli, c’è il sole a dipingere questa giornata che si spegne dolce. Il tramonto immerso nel cotone sfilacciato delle nuvole, scure per il controluce.
Rosso, arancio, giallo e rosa. E solo profili neri di tetti sempre troppo ignorati.
Allora rientro in ufficio di buon umore, m’infilo cappotto, cuffia, sciarpa e guanti. La figlia di Fantozzi. Ma c'è un freddo cane (giustifico).
Raccolgo le mie cose tra il casino di fogli e spengo il computer.
Ché per spegnerlo, almeno, non serve una password.
Per ora.

Nessun commento: